Leopardi: Confronto tra La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio e Il passero solitario

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  1. punKt89
     
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    G. Leopardi: Confronto tra "La sera del dì di festa", "Il sabato del villaggio",
    "Il passero solitario"




    Pur appartenendo a tre fasi molto diverse del percorso poetico di Leopardi — del "Passero solitario" (d’ora in poi Pso) non si conosce la data di composizione, ma si può certamente considerare posteriore alla "Sera del dì di festa" (d’ora in poi Sddf), del 1820, e a "Il sabato del villaggio" (d’ora in poi Sdv), del 1829 — questi tre componimenti sono accomunati da un medesimo approccio ai motivi che ne costituiscono l’ispirazione centrale. In particolare questi convergono sul paragone tra la giovinezza e la festa. In "La sera del dì di festa" il giorno festivo è già passato, nel Sdv è ancora a venire, nel Pso è ancora in pieno svolgimento. Ma, al di là di queste differenze formali, a tornare in tutte tre le poesie sono i fitti riferimenti al tempo inteso come attesa, ricordo, durata, ai molteplici lati in cui si presenta la natura, in un costante atteggiamento di distaccato "mirare in disparte", di separazione tra l'io del poeta e gli altri che diventa, in questo percorso, sempre più definitivo. La "La sera del dì di festa" si apre su una descrizione pacata della notte che segue un giorno di festa. Su tutto domina una tranquilla immobilità: la notte è "dolce" e "chiara" (e il richiamo a Petrarca accentua il tono misurato di questo incipit) e "senza vento", "queta" è la luna, "e di lontan rivela serena ogni montagna", "tace ogni sentiero", "agevol" è il sonno che accoglie la immaginaria interlocutrice cui il poeta si rivolge. Dal v. 13 il discorso sale di intensità a sottilineare la distanza tra la tranquillità di quel sonno, "Prendi riposo; e forse ti rimembra / In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti / Piacquero a te", e l’io del poeta, condannato all’infelicità "la natura onnipossente / che mi fece all’affanno. A te la speme / Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto", "Intanto io chieggo / Quanto a viver mi resti, e qui per terra / Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi / In così verde etate", cui segue la sconsolata constatazione di come il tempo della festa, tanto "bramosamente" atteso nella "prima età", fugga senza quasi lasciare traccia: "Ecco è fuggito / il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede".

    Lo stesso motivo è alla base de "Il sabato del villaggio", in cui l’atteggiamento del "mirare in disparte" appare più marcato e più disincantato nello stesso tempo, trovandosi all'interno di una poesia dove è assente la forte tensione emotiva che aveva caratterizzato la precedente ("e qui per terra / Mi getto, e grido, e fremo"; "ed alla tarda notte / Un canto che s'udia... / ... / Già similmente mi stringeva il core") di cui prende il posto un tono più composto, quasi sentenzioso. Come nella chiusura de "La sera del dì di festa" ("Nella mia prima età, quando s'aspetta / Bramosamente il dì festivo, or poscia") l’infanzia, "età fiorita", è il tempo dell’attesa, un "giorno d’allegrezza pieno, / giorno chiaro, sereno, / Che precorre alla festa di tua vita". L’invito di Leopardi a godersi quel giorno trae ispirazione dall’osservazione, che occupa la prima parte del componimento, dei gesti elementari della comunità che si prepara per la festa, che riserverà loro all'indomani solo "tristezza e noia... ed al travaglio usato / Ciascuno in suo pensier farà ritorno". La distanza tra l’io e l’altro, la felicità negata "in così verde etate" si trasforma qui nella constatazione dell’impossibilità stessa di quella felicità, nel continuo inganno del tempo per il quale il giorno di festa non può esistere se non nella dimensione dell’attesa o del ricordo: "Siede con le vicine... la vecchiarella... E novellando vien del suo buon tempo, / Quando ai dì della festa ella si ornava", dove la simmetria con la donzelletta dei versi iniziali che "siccome suole, / Ornare ella si appresta" sembra voler indicare l'immobilità della condizione umana.

    Ne "Il passero solitario" il "mirare in disparte" è richiamato in modo esplicito nella similitudine tra il poeta e il passero, "Oimè, quanto somiglia / Al tuo costume il mio", che attraversa, procedendo per accostamenti, tutto il componimento: "Tu pensoso in disparte il tutto miri; / Non compagni, non voli, / Non ti cal d'allegria... / ... e così trapassi / Di tua vita e dell'anno il più bel fiore", "Sollazzo e riso, / Della novella età dolce famiglia, / E te german di giovinezza amore... Non curo... anzi da loro / Quasi fuggo lontano... strano / Al mio loco natio", per concludersi, in modo serrato, nell'ultima strofa: "Tu... A me...". Definitiva appare qui l’esclusione dal mondo e dai suoi costumi: "Tutta vestita a festa / La gioventù del loco / Lascia le case, e per le vie si spande; / E mira ed è mirata, e in cor s’allegra / Io solitario... Ogni diletto e gioco / Indugio ad altro tempo". Il motivo del tempo passa ad abbracciare una più ampia dimensione dove alla sensazione del trascorrere della giovinezza-Primavera, "trapassi / Di tua vita e dell’anno il più bel fiore", "Passo del viver mio la primavera", "giorno ch’omai cede alla sera" si fonde l’attesa di un futuro, "la detestata vecchiezza" che non può che essere "Del dì presente più noioso e tetro" e nel quale non rimane spazio per un sereno sguardo retrospettivo, bensì per lo sconsolato pentimento di chi, come il passero, ha sempre schivato i "compagni", i "voli", l’"allegria" e gli "spassi".
     
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