La lingua napoletana

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  1. punKt89
     
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    La lingua napoletana




    La lingua napoletana (napulitano), è una lingua romanza.

    Nonostante molti linguisti lo considerino un dialetto, altri, tra cui l'UNESCO, considerano il napoletano letterario standardizzato una vera e propria lingua, anche considerando le numerose varianti che ne possono essere considerate dialetti. Secondo altri tuttavia non si può considerare lingua una varietà che non abbia un riconoscimento ufficiale da parte di uno Stato e che non sia usata per tutte le funzioni comunicative.


    È inoltre errato considerare come "derivati dal napoletano" i dialetti campani o quelli delle altre regioni meridionali. Ciascun dialetto italico è gemmato spontaneamente dal latino volgare, per tradizione continua. Le affinità osservabili sono dovute a un rapporto di "fratellanza" e non di "filiazione". Resta comunque vero che il napoletano ha esercitato, soprattutto nei secoli in cui Napoli era capitale, una certa influenza su molti dialetti. La disputa terminologica dialetto contro lingua, comunque, non implica un giudizio di valore. Un dialetto, per la linguistica e per la sociolinguistica contemporanee, non è in nulla inferiore a una lingua dal punto di vista della sua complessità strutturale, grammaticale e lessicale (si sa del resto, come scrive Gaetano Berruto, che «ogni lingua è stata un dialetto»). La distinzione riguarda unicamente aspetti esterni, come il riconoscimento come lingua ufficiale da parte di uno stato o come l'effettivo uso di una varietà linguistica in tutte le funzioni. In questo senso, il napoletano non rientra nella definizione di lingua in quanto non è la lingua ufficiale di un territorio né viene utilizzato per le funzioni amministrative, burocratiche, scientifico-tecnologiche.

    Esso è parlato in Campania, e nella sua forma più pura e conosciuta nella città di Napoli, ma non è mai stato utilizzato come lingua ufficiale del Regno di Napoli o di alcuna altra entità statale.

    Il napoletano è inoltre considerato una Lingua Regionale o minoritaria ai sensi della Carta europea per le lingue regionali e minoritarie, che all'Art. 1 afferma che per "lingue regionali o minoritarie si intendono le lingue ... che non sono dialetti della lingua ufficiale dello stato". La Carta europea per le lingue regionali e minoritarie è stata approvata il 25 giugno 1992 ed è entrata in vigore il 1 marzo 1998. L'Italia ha firmato tale carta il 27 giugno 2000 ma non l'ha ancora ratificata.


    Le origini e la storia

    Il napoletano, come l'italiano, è una lingua derivata dal latino. Sono state ipotizzate anche tracce della lingua parlata in Italia centro-meridionale prima della conquista romana, l'osco (ma anche successivamente, iscrizioni osche si rinvengono a Pompei, ancora nel 79 d.C., per esempio), che è lingua italica (quindi imparentata al latino, ma da questo distinto però contemporanea ad esso), e del greco, parlato a Napoli fino al II-III sec. d.C..

    Il napoletano ha inoltre subìto nella sua storia, come molte altre lingue, influenze e "prestiti" dai vari popoli che hanno abitato o dominato la Campania e l'Italia centro-meridionale, i coloni greci ed i mercanti bizantini nell'epoca del Ducato di Napoli fino al IX secolo, e, più recentemente, i normanni, i francesi gli spagnoli e perfino gli americani, durante la seconda guerra mondiale e la conseguente occupazione di Napoli, hanno contribuito con qualche vocabolo. Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda lo spagnolo, è errato attribuire esclusivamente all'influenza spagnola (Napoli fu sotto diretto dominio spagnolo per oltre due secoli, dal 1503 al 1707) qualsiasi somiglianza tra il napoletano e quest'idioma: infatti, trattandosi di lingue ambedue romanze o neolatine, la maggior parte degli elementi comuni vanno fatti risalire al latino volgare (in particolare la costruzione dell'accusativo personale indiretto e l'uso di tenere e di stare in luogo di avere e essere, e così via.).

    Con il Regno aragonese di Napoli si propose il napoletano come lingua dell'amministrazione, senza mai imporre l'aragonese o il catalano, ma il tentativo abortì con la deposizione di Federico e l'inizio del viceregno. Nella prima metà dell'Ottocento il Regno delle Due Sicilie usava di fatto come lingua amministrativa e letteraria l'italiano e quindi il napoletano non ha mai avuto condizione di lingua ufficiale. Del resto anche il Regno di Sardegna non ufficializzò mai né il piemontese né l'italiano, anche se la lingua più parlata era il francese, per i suoi usi amministrativi [senza fonte].


    Il napoletano nella letteratura e negli studi linguistici

    Il napoletano (come il siciliano, il veneziano e altre varietà italoromanze) possiede una ricchissima tradizione letteraria.

    Si hanno testimonianze scritte di napoletano già nel 960 con il famoso Placito di Capua (considerato il primo documento in lingua italiana, ma di fatto si tratta della lingua utilizzata in Campania dalla quale deriva il napoletano) e poi all'inizio del '300, con una volgarizzazione dal latino della Storia della distruzione di Troia di Guido Giudice delle Colonne.

    La letteratura napoletana parte con Giulio Cesare Cortese e Giambattista Basile, vissuti nella prima metà del Seicento. Basile è autore di un'opera famosa come Lo Cunto de li Cunti, ovvero lo trattenimiento de le piccerille, tradotta in italiano da Benedetto Croce, che ha regalato al mondo la realtà popolare e fantasiosa delle fiabe, inaugurando una tradizione ben ripresa da Perrault e dai fratelli Grimm.

    Negli ultimi tre secoli è sorta una fiorente letteratura in napoletano, in settori anche diversissimi tra loro, che in alcuni casi è giunta anche a punte di grandissimo livello, come ad esempio nelle opere di Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Ferdinando Russo,Eduardo Scarpetta,Eduardo de Filippo,Antonio De Curtis.
    Sarebbero inoltre da menzionare nel corpo letterario anche le canzoni napoletane, eredi di una lunga tradizione musicale, caratterizzate da grande lirismo e melodicità, i cui pezzi più famosi (come, ad esempio, 'O Sole mio) sono noti in diverse zone del mondo. Esiste inoltre un fitto repertorio di canti popolari alcuni dei quali sono oggi considerati dei classici.
    Va infine aggiunto che a cavallo del XVII e XVIII secolo, nel periodo di maggior fulgore della c.d. scuola musicale napoletana, questa lingua sia stata utilizzata per la produzione di interi libretti di opere liriche, alcune delle quali (Lo frate 'nnammorato ad esempio) hanno avuto una diffusione ben al di fuori dei confini partenopei.

    Va segnalata infine la ripresa dell'uso del napoletano nell'ambito della musica pop, musica progressiva e dell'hip hop, almeno a partire dalla fine degli anni '70 (Pino Daniele, poi ripresa anche negli anni '90 con 99 Posse, Almamegretta, Co'Sang) in nuove modalità di ibridazione e di commistione con l'italiano, l'inglese, lo spagnolo e altre lingue. Anche nel cinema e nel teatro d'avanguardia la presenza del napoletano è andata intensificandosi negli ultimi decenni del '900 e nei primi anni del XXI secolo.

    La documentazione sul napoletano è ampia, ma non sempre a un livello scientifico. Vocabolari rigorosi sono quello di Raffaele D'Ambra (un erudito ottocentesco) e quello di Antonio Altamura (studioso novecentesco). Interessante è anche la grammatica del Capozzoli (1889).
    Anche negli ultimi anni sono stati pubblicati dizionari e grammatiche della lingua napoletana, ma non si è mai pervenuti a una normativa concorde dell'ortografia, della grammatica e della sintassi, sebbene si possa comunque ricavare deduttivamente, dai testi classici a noi giunti, una serie di regole convenzionali abbastanza diffuse.

    Gli studi più recenti hanno dedicato al napoletano e ai dialetti campani una certa attenzione. Per il napoletano antico si segnalano i lavori di Vittorio Formentin sui Ricordi di Loise de Rosa, di Rosario Coluccia sulla Cronaca del Ferraiolo, di Nicola De Blasi sulla traduzione del Libro de la destructione de Troya, di Marcello Barbato e Marcello Aprile sull'umanista Giovanni Brancati. Sui dialetti moderni, tra gli altri, si segnalano i lavori di Rosanna Sornicola, di Nicola De Blasi, di Patricia Bianchi e di Pietro Maturi dell'Università di Napoli Federico II, di Edgar Radtke dell'Università di Heidelberg, di Francesco Avolio sui confini dei dialetti campani e di Michela Russo, dell'Università di Paris VIII, su aspetti della fonetica come la metafonia. Una rivista, diretta da Rosanna Sornicola, il Bollettino Linguistico Campano, si occupa prevalentemente del napoletano. Da alcuni anni è stato attivato un insegnamento universitario di Dialettologia campana presso la facoltà di Sociologia della Federico II, affidato a Pietro Maturi.


    Cenni di fonetica

    Spesso le vocali non toniche (su cui cioè non cade l'accento) e quelle poste in fine di parola, non vengono articolate in modo distinto tra loro, e sono tutte pronunciate con un suono centrale indistinto che i linguisti chiamano schwa e che nell'Alfabeto fonetico internazionale è trascritto col simbolo /ə/ (in francese lo ritroviamo, ad esempio, nella pronuncia della e semimuta di petit).

    Nonostante la pronuncia (e in mancanza di convenzioni ortografiche accettate da tutti) spesso queste vocali sono trascritte sulla base del modello della lingua italiana, e ciò, pur migliorando la leggibilità del testo e rendendo graficamente un suono debole ma esistente, favorisce l'insorgere di errori da parte di coloro che non conoscono la lingua e sono portati a leggere come in italiano. Nell'uso scritto spontaneo dei giovani (SMS, graffiti, ecc.), come ha documentato Pietro Maturi, prevale invece l'omissione completa di tale fono, con il risultato di grafie a volte poco riconoscibili ma marcatamente distanti dalla forma italiana (p.es. tlefn per "telefono").

    Altri errori comuni, dovuti a somiglianze solo apparenti con quest'ultima lingua riguardano l'uso errato del rafforzamento sintattico che segue, rispetto all'italiano, regole proprie e molto diverse, e la pronuncia di vocali chiuse invece che aperte, o viceversa, l'arbitraria interpretazione di alcuni suoni.

    Alcune ulteriori differenze di pronuncia con l'italiano sono:

    in principio di parola, e soprattutto nei gruppi gua /gwa/ e gue /gwa/, spesso la occlusiva velare sonora /g/ seguita da vocale diventa approssimante /ɤ/.
    la fricativa alveolare non sonora /s/ in posizione iniziale seguita da consonante viene spesso pronunciata come fricativa postalveolare non sonora /ʃ/ (come in scena ['ʃe:na] dell'italiano ) ma non quando è seguita da una occlusiva dentale /t/ o /d/ (almeno nella forma più pura della lingua).
    le parole che terminano per consonante (in genere prestiti stranieri) portano l'accento sull'ultima sillaba.
    la /i/ diacritica presente nei gruppi -cia /-eʧa/ e -gia /-eʤa// dell'italiano, viene talvolta pronunciata: per es. na cruciera [nakru'ʧiera].
    è frequente il rotacismo della /d/, cioè il suo passaggio a /r/, come in Maronna.
    la vocale aperta arrotondata a è pronunciata /ɑ/ piuttosto che /a/ come in italiano.


    Cenni di grammatica

    La grammatica napoletana è abbastanza complessa e distinta rispetto a quella italiana. Proviamo ad accennarne alcune regole esemplificative, confrontandole con le corrispondenti norme grammaticali in altre lingue, senza per questo sottendere necessariamente un rapporto di influenza o derivazione.

    A seguito dell'indebolimento della vocale finale, molti sostantivi hanno una pronuncia identica sia nel singolare che nel plurale: le due forme si distinguono grazie all'utilizzo del differente articolo, alla presenza o meno del rafforzamento sintattico, alla concordanza del verbo. Altri sostantivi hanno invece una forma distinta per il plurale, talvolta basata sulla mutazione della vocale tonica (per esempio 'o carton diventa 'e cartune)
    La mutazione della vocale tonica serve anche ad ottenere il maschile di diversi aggettivi o sostantivi, per esempio rossa (rossa) diventa russo, con mutazione della o in u (si noti la pronuncia indistinta della o e della a finale)
    Esiste il genere neutro, lo ritroviamo ad esempio negli aggettivi dimostrativi, e nella diversità di regole del neutro rispetto agli altri due generi in caso di raddoppiamento sintattico (ad esempio 'o niro può riferirsi ad una persona di colore di sesso maschile, 'o nniro, col raddoppiamento fonosintattico della n, è adoperato al neutro e si riferirà unicamente al colore nero generalmente inteso).
    L'aggettivo possessivo segue sempre il nome a cui si riferisce, per esempio o' sol mio, ed in alcuni casi si lega per enclisi ad esso: ciò avviene con alcuni nomi di parentela al singolare quando il possessore sia di prima o seconda persona singolare, per esempio fràtemo, sòreta, ma 'o frate vuosto, 'a sora soja, etc.
    Come in altre lingue romanze e non, gli aggettivi possessivi non possono essere preceduti da articoli indeterminativi. Pertanto, si ricorrerà al partitivo 'n'amico do mïo oppure, più raramente, 'n'amico a mme (francese "un ami à moi", inglese "a friend of mine") per intendere un mio amico.
    Il corrispondente napoletano diretto del verbo avere (havé) è spesso usato come verbo ausiliare anche lì dove in italiano si utilizzerebbe essere, per esempio con i verbi riflessivi oppure con i verbi di movimento (haggio juto, haggio venuto).
    Similmente allo spagnolo il corrispondente napoletano del verbo tenere (tènere oppure tené) è usato, in luogo del corrispondente diretto di avere, in tutti i casi in cui indica possesso oppure una condizione come l'appetito, la sete, etc. Il verbo havé si usa solo come ausiliare per i tempi composti (haggiu fatto), per la locuzione avere da (vedi appresso) e in locuzioni cristallizzate come hagge pacienza, have raggione, etc.
    Altre somiglianze con lo spagnolo sono rappresentate dal fatto che, nella coniugazione al presente indicativo la radice verbale talvolta è variabile (ad es., tu duorme ma isso dorme) e dall'esistenza dell'accusativo personale retto dalla preposizione a come nella frase haggio visto a Pascal (qui il complemento oggetto è introdotto, a differenza dell'italiano, dalla preposizione a perché ci si riferisce ad una persona, però si dice semplicemente, riferendosi ad una cosa, haggio visto nu chiuovo, ho visto un chiodo).
    In luogo del verbo dovere si usa la locuzione avere da (haggia fà, hadda venì). Essa ha subìto numerose varianti ed accorciamenti nei vari usi locali (ad esempio heggia invece di haggia, hamma, hemma o addirittura himma in sostituzione di havimmo a etc.). Similitudine fonetica, oltre che di uso verbale, con il Catalano; ad esempio il che devo dirti, similmente al Napoletano, in Catalano è pronunciato che t'agg da dì (parole scritte per lettori italiane, in napoletanoChe t'haggia a ricer).
    Come in tante altre lingue, esistono omofoni di significato differente (il suono "e", pronunciato chiuso, può riferirsi alla congiunzione coordinativa identica in italiano, alla preposizione semplice di, all'articolo plurale gli oppure le, ai pronomi personali li oppure le, alla forma contratta della seconda persona singolare dell'indicativo del verbo avere e, in alcune varianti della lingua, può perfino indicare tu devi).
    Le parole che iniziano con una i semivocalica (sovente trascritta come j) cioè con una i seguìta da un'altra vocale, talvolta aggiungono al principio della parola il suono ggh- se sono sottoposte a raddoppiamento sintattico (per es. quando seguono l'avverbio nun, davanti all'articolo femminile plurale, con la preposizione pê, etc.). Un'applicazione di questa regola è il plurale di 'a jurnata: 'e gghiurnate (le giornate).
    Come in inglese alcune parole hanno due distinte pronunce: una forte e una debole, e ad esse corrisponde una diversa enfasi del termine: in generale in napoletano la prima pronuncia si differenzia dalla seconda per l'emissione ben marcata della vocale finale, in luogo dell'abituale suono indistinto in fine di parola di cui si è parlato sopra. In questi casi si pronuncia una u finale per la forma maschile, una a finale per quella femminile ed una i finale per le forme plurali maschili o femminili che siano. La pronuncia forte si utilizza (ed è obbligatoria) soprattutto in casi ben specifici: per es. con alcuni aggettivi se posti prima del sostantivo a cui si riferiscono, mentre sarebbe errato adoperarla se l'aggettivo segue il nome (un paio di esempi per chiarire: nu bellu guaglione, un bel ragazzo - in questo caso poiché l'aggettivo precede il nome ed è tra quelli per cui esiste una pronuncia forte, essa è obbligatoria, per cui la u finale andrà pronunciata ben distintamente; se però avessimo detto nu guaglione bello le vocali poste in finale di parola avrebbero avuto il suono indistinto della pronuncia debole abituale).
    I verbi presentano, come in altre lingue romanze, autonome desinenze per i vari tempi verbali: ad es. il verbo campà al presente si coniugherà je campo, al passato remoto je campaje, al passato prossimo je haggiu campato, al futuro je camparraggio (ma questa forma tende ad essere sempre meno utilizzata e sostituita dal presente o dalla circonlocuzione avere da). Il condizionale presente (je camparrïa) nell'uso contemporaneo è sostituito dal congiuntivo imperfetto (je campasse). Sono poi da citare diversi verbi irregolari, soprattutto al presente indicativo ed al participio passato, mentre - a differenza dell'italiano - non esistono passati remoti irregolari (per es. il latino fecit - fece - diventa in napoletano regolarmente facètte).


    Similitudini con lingue straniere

    Nella lingua napoletana troviamo moltissime parole simili o talvolta uguali a lingue straniere. Solitamente sono scritte in modo diverso ma spesso la pronuncia è molto simile o identica. Ciò è dovuto in parte alle conservazioni greche e latine e in parte alle diverse dominazioni che le Due Sicilie hanno subito. Troviamo in essa parole derivate dalle lingue castigliana, catalana, francese, araba (l'arabo ha influenzato il napoletano anche nella cucina, per via dei numerosi scambi commerciali che il Regno delle Due Sicilie intratteneva con l'area afro-mediterranea). Qualche parola deriva addirittura dall'inglese (anche con l'Inghilterra il Regno intratteneva rapporti commerciali) alcune delle quali introdotte durante l'occupazione americana della II guerra mondiale e forse per commistione linguistica con termini usati da emigranti in nazioni anglofone.


    Fonte: Wikipedia
     
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    風のささやき

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    interessantissima cm cosa...
    nn sapevo tutte ste cose sul napoletano..

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    io quando abitavo a napoli avevo il vesuvio di fronte **





    :cry::cry::cry: mi manca T.T :cry::cry::cry:
     
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