Apuleio: Metamorphoseon (Asinus Aureus), Liber I

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  1. Anal Liberation
     
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    Apuleio - Metamorphoseon (Asinus Aureus)

    Liber I




    [1] At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam -- modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere --, figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursus mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior. "Quis ille?" Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos Ephyrea et Taenaros Spartiatica, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox in urbe Latia advena studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte aggressus excolui. En ecce praefamur veniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor offendero. Iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis.

    - Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a stuzzicarti le orecchie con ammiccanti parole, solo che tu vorrai posare lo sguardo su queste pagine scritte con un'arguzia tutta alessandrina.
    E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l'essere loro e poi son ritornati di nuovo come erano prima.
    Dunque, comincio.
    Certo che tu ti chiederai io chi sia; ebbene te lo dirò in due parole: le regioni dell'Imetto, nell'Attica, l'Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l'aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica.
    Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale.
    Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti.
    Incomincio con una storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.


    [2] Thessaliam -- nam et illic originis maternae nostrae fundamenta a Plutarcho illo inclito ac mox Sexto philosopho nepote eius prodita gloriam nobis faciunt -- eam Thessaliam ex negotio petebam. Postquam ardua montium ac lubrica vallium et roscida cespitum et glebosa camporum <emenus> emersi, in equo indigena peralbo vehens iam eo quoque admodum fesso, ut ipse etiam fatigationem sedentariam incessus vegetatione discuterem in pedes desilio, equi sudorem <fronte detergeo>, frontem curiose exfrico, auris remulceo, frenos detraho, in gradum lenem sensim proveho, quoad lassitudinis incommodum alvi solitum ac naturale praesidium eliquaret. Ac dum is ientaculum ambulatorium prata quae praeterit ore in latus detorto pronus adfectat, duobus comitum qui forte paululum processerant tertium me facio. Ac dum ausculto quid sermonibus agitarent, alter exserto cachinno: "Parce" inquit "in verba ista haec tam absurda tamque immania mentiendo." Isto accepto sitior alioquin novitatis: "Immo vero" inquam "impertite sermonem non quidem curiosum sed qui velim scire vel cuncta vel certe plurima; simul iugi quod insurgimus aspritudinem fabularum lepida iucunditas levigabit."

    - Ero diretto in Tessaglia per affari (la mia famiglia per parte di madre, è originaria di quella regione e per il fatto che fra i suoi antenati vanta il celebre Plutarco e suo nipote, il filosofo Sesto, è per me titolo di gloria), dunque, ero diretto in Tessaglia e m'ero già lasciato alle spalle montagne ripide, valli impervie, umide pianure, campagne fertili e coltive e il bianco cavallo indigeno che montavo era stanchissimo. Così decisi di fare un po' di strada a piedi per sgranchirmi le gambe, stanco com'ero anch'io di star seduto in sella.
    Smontai, asciugai con cura la fronte del cavallo madida di sudore, gli accarezzai le orecchie, gli tolsi il morso e lo lasciai andar libero, al passo, perché smaltisse un po' la stanchezza e si svuotasse del peso naturale del ventre. E mentre quello a muso all'ingiù pascolava lento fra l'erba, io mi unii, come terzo, a due viandanti che in quel momento mi passavano accanto.
    Tesi l'orecchio per sapere di che cosa parlassero e sentii che uno dei due, scoppiando in una gran risata, diceva all'altro: «Ma la pianti di raccontar simili balle?»
    Io che sono sempre smanioso di novità, intervenni: «Non è per essere un ficcanaso, ma perché mi piace sapere un po' tutto o per lo meno quanto più è possibile, vi prego di mettermi a parte di quello che state dicendo; oltretutto ci vuol proprio qualche allegra storiella per farci sembrare meno scoscesa e impervia la strada che abbiamo davanti.»


    [3] At ille qui coeperat: "Ne" inquit "istud mendacium tam verum est quam siqui velit dicere magico susurramine amnes agiles reverti, mare pigrum conligari, ventos inanimes exspirare, solem inhiberi, lunam despumari, stellas evelli, diem tolli, noctem teneri." Tunc ego in verba fidentior: "Heus tu" inquam "qui sermonem ieceras priorem, ne pigeat te vel taedeat reliqua pertexere", et ad alium: "Tu vero crassus et obstinato corde respuis quae forsitan vere perhibeantur. Minus hercule calles pravissimis opinionibus ea putari mendacia quae vel auditu nova vel visu rudia vel certe supra captum cogitationis ardua videantur; quae si paulo accuratius exploraris, non modo compertu evidentia verum etiam factu facilia senties.

    - «Sono frottole queste,» continuava, intanto, quello che aveva parlato per primo, «vere come quelle di chi vorrebbe far credere che basta una formuletta magica per fare andare i fiumi all'insù, rendere il mare una massa solida, impedire ai venti di soffiare, fermare il sole, far svaporare la luna, staccare le stelle dal cielo, oscurare il giorno e rendere eterna la notte.»
    Io, allora, incoraggiato, ripresi: «Ehi, tu, che evidentemente hai avviato il discorso, non prendertela, non badargli, continua il tuo racconto.» E all'altro: «In quanto a te fai male a tapparti le orecchie e a rifiutarti cocciutamente di credere a delle cose che potrebbero anche esser vere. Capita, sai, per una sciocca prevenzione però, di ritenere falso ciò che non si è mai visto o udito o che cade fuori della nostra comprensione; ma se poi ci pensi un po' su ti accorgi che tutto è spiegabilissimo, non solo, ma che è anche realmente possibile.


    [4] Ego denique vespera, dum polentae caseatae modico secus offulam grandiorem in convivas aemulus contruncare gestio, mollitie cibi glutinosi faucibus inhaerentis et meacula spiritus distinentis minimo minus interii. Et tamen Athenis proxime et ante Poecilen porticum isto gemino obtutu circulatorem aspexi equestrem spatham praeacutam mucrone infesto devorasse, ac mox eundem, invitamento exiguae stipis venatoriam lanceam, qua parte minatur exitium, in ima viscera condidisse. Et ecce pone lanceae ferrum, qua bacillum inversi teli ad occipitium per ingluviem subit, puer in mollitiem decorus insurgit inque flexibus tortuosis enervam et exossam saltationem explicat cum omnium qui aderamus admiratione: diceres dei medici baculo, quod ramis semiamputatis nodosum gerit, serpentem generosum lubricis amplexibus inhaerere. Sed iam cedo tu sodes, qui coeperas, fabulam remetire. Ego tibi solus haec pro isto credam, et quod ingressui primum fuerit stabulum prandio participabo. Haec tibi merces posita est."

    - «Per esempio, l'altra sera, a tavola fra amici feci la bravata di mandar giù un boccone troppo grosso di polenta e formaggio e per poco non mi strozzavo, tanto quella roba molliccia mi s'era attaccata al palato e mi impediva di respirare. Eppure, non molto prima, proprio con questi occhi, ad Atene, davanti al portico Pecile, avevo visto un giocoliere infilarsi nella gola, per la punta, una spada affilata, di quelle che usano in cavalleria, e, per poche monete, ficcarsi fin giù nelle budella, una lancia da cacciatore, proprio dalla parte della punta mortale: ed ecco che al legno dell'asta, la cui punta di ferro introdotta nella gola sbucava dietro la nuca, si attaccò un ragazzino leggiadro e agilissimo e cominciò a far capriole e volteggi tali da parer tutto snodato e senz'ossa e noi lì a bocca aperta a guardarlo. Pareva il provvidenziale serpente che s'attorciglia al bastone nodoso di Esculapio.
    «Dài, allora, ti lascio la parola, riprendi il racconto che stavi facendo. Ti basti che sia soltanto io a crederti, anche per lui; in cambio, alla prima locanda che incontreremo, ti offrirò da mangiare, parola mia.»


    [5] At ille: "Istud quidem quod polliceris aequi bonique facio, verum quod inchoaveram porro exordiar. Sed tibi prius deierabo solem istum omnividentem deum me vera comperta memorare, nec vos ulterius dubitabitis si Thessaliae proximam civitatem perveneritis, quod ibidem passim per ora populi sermo iactetur quae palam gesta sunt. Sed ut prius noritis cuiatis sim, qui sim: <aristomenes sum>, Aegiensis; audite et quo quaestu me teneam: melle vel caseo et huiusce modi cauponarum mercibus per Thessaliam Aetoliam Boeotiam ultro citro discurrens. Comperto itaque Hypatae, quae civitas cunctae Thessaliae antepollet, caseum recens et sciti saporis admodum commodo pretio distrahi, festinus adcucurri id omne praestinaturus. Sed ut fieri adsolet, sinistro pede profectum me spes compendii frustrata est: omne enim pridie Lupus negotiator magnarius coëmerat. Ergo igitur inefficaci celeritate fatigatus commodum vespera oriente ad balneas processeram.

    - «Mi va bene e ci sto» mi fece. «Avevo appena iniziato e, comunque, ricomincerò dal principio. Ma prima voglio giurarti, per questo dio sole che tutto vede, che le cose che sto per narrarti sono tutte vere e controllabilissime; del resto, voi stessi non avrete più dubbi una volta arrivati alla più vicina città della Tessaglia dove questi fatti sono accaduti alla luce del sole e tutti ancora ne parlano.
    «Ma prima lasciate che io vi dica da dove vengo e chi sono: mi chiamo Aristomene e sono di Egio. Mi guadagno da vivere vendendo miele e formaggio e prodotti simili, su e giù per le osterie della Tessaglia, dell'Etolia e della Beozia.
    «Fu così che venni a sapere che a Ipata, la città principale della Tessaglia, si vendeva formaggio fresco, di buona qualità e a un prezzo d'occasione. Subito mi ci precipitai per acquistarne l'intera partita. Ma si vede che partii sotto cattiva stella perché Lupo, il grossista, mi aveva preceduto e il giorno prima aveva fatto incetta di tutto. Così, sfumata la speranza del guadagno, innervosito e stanco per quel viaggio fatto in fretta e furia e per nulla, non mi restò, che andarmene alle terme.


    [6] Ecce Socraten contubernalem meum conspicio. Humi sedebat scissili palliastro semiamictus, paene alius lurore ad miseram maciem deformatus, qualia solent fortunae decermina stipes in triviis erogare. Hunc talem, quamquam necessarium et summe cognitum, tamen dubia mente propius accessi. "Hem," inquam "mi Socrates, quid istud? Quae facies? Quod flagitium? At vero domi tuae iam defletus et conclamatus es, liberis tuis tutores iuridici provincialis decreto dati, uxor persolutis feralibus officiis luctu et maerore diuturno deformata, diffletis paene ad extremam captivitatem oculis suis, domus infortunium novarum nuptiarum gaudiis a suis sibi parentibus hilarare compellitur. At tu hic larvale simulacrum cum summo dedecore nostro viseris." "Aristomene", inquit "ne tu fortunarum lubricas ambages et instabiles incursiones et reciprocas vicissitudines ignoras", et cum dicto sutili centunculo faciem suam iam dudum punicantem prae pudore obtexit ita ut ab umbilico pube tenus cetera corporis renudaret. Nec denique perpessus ego tam miserum aerumnae spectaculum iniecta manu ut adsurgat enitor.

    - «Ma pensa un po' chi vidi: Socrate, un vecchio amicone. Se ne stava seduto per terra, ravvoltolato a mala pena in un mantellaccio sbrindellato, irriconoscibile, tanto era pallido e smagrito; pareva uno di quei poveri disgraziati perseguitati dalla malasorte che si riducono a chiedere l'elemosina alle cantonate.
    «Nonostante la confidenza e la familiarità, mi avvicinai a lui con una certa titubanza: 'Ohilà, Socrate,' gli feci, 'cos'è questa storia? Com'è che sei in questo stato? Che t'è capitato? A casa ti piangono per morto e ai tuoi figli i giudici hanno già dato un tutore; con tua moglie, che t'ha fatto il funerale e che s'è consumata in lacrime e che per il pianto le si sono seccati gli occhi, i suoi parenti insistono perché si consoli della tua perdita e rallegri la tua casa con nuove nozze. E tu, intanto, te ne stai qui che mi sembri proprio un fantasma. È proprio un avvilimento!'
    «'Ah, Aristomene,' mi rispose, 'come si vede che non conosci i colpi mancini della fortuna, i suoi capricci, i suoi tranelli' e, arrossendo per la vergogna, si tirò sulla faccia quel suo mantello sbrindellato; ed io vidi che sotto era nudo dal ventre al pube.
    «Non reggendo alla vista di tanta miseria, gli tesi la mano e feci per tirarlo su.


    [7] At ille, ut erat, capite velato: "Sine, sine" inquit "fruatur diutius tropaeo Fortuna quod fixit ipsa." Effeci sequatur, et simul unam e duabus laciniis meis exuo eumque propere vestio dicam an contego et ilico lavacro trado, quod unctui, quod tersui, ipse praeministro, sordium enormem eluviem operose effrico, probe curato ad hospitium lassus ipse fatigatum aegerrime sustinens perduco, lectulo refoveo, cibo satio, poculo mitigo, fabulis permulceo. Iam adlubentia proclivis est sermonis et ioci et scitum etiam cavillum, iam dicacitas timida, cum ille imo de pectore cruciabilem suspiritum ducens dextra saevientem frontem replaudens: "Me miserum" infit "qui dum voluptatem gladiatorii spectaculi satis famigerabilis consector in has aerumnas incidi. Nam, ut scis optime, secundum quaestum Macedoniam profectus, dum mense decimo ibidem attentus nummatior revortor, modico prius quam Larissam accederem, per transitum spectaculum obiturus in quadam avia et lacunosa convalli a vastissimis latronibus obsessus atque omnibus privatus tandem evado, et utpote ultime adfectus ad quandam cauponam Meroën, anum sed admodum scitulam, devorto, eique causas et peregrinationis diuturnae et domuitionis anxiae et spoliationis [diuturnae et dum] miserae refero; quae me nimis quam humane tractare adorta cenae gratae atque gratuitae ac mox urigine percita cubili suo adplicat. Et statim miser, ut cum illa adquievi, ab unico congressu annosam ac pestilentem con<suetudinem> contraho et ipsas etiam lacinias quas boni latrones contegendo mihi concesserant in eam contuli, operulas etiam quas adhuc vegetus saccariam faciens merebam, quoad me ad istam faciem quam paulo ante vidisti bona uxor et mala fortuna perduxit."

    - «Ma lui, col viso coperto: 'No, no, che la malasorte continui a godersela la sua vittoria.'
    «Finalmente riuscii a tirarmelo dietro e intanto gli feci indossare uno dei miei indumenti per coprirlo alla meglio e me lo portai alle terme, rifornendolo di tutto l'occorrente per ungersi e asciugarsi; anzi io stesso lo strofinai ben bene per togliergli quel dito di sudiciume che aveva addosso. Dopo averlo ripulito, benché fossi stanco anch'io, lo portai di peso alla locanda, ché a mala pena si reggeva in piedi, e qui lo ficcai in un letto caldo, gli diedi da mangiare e da bere, lo tenni su con qualche storiella, tanto che in breve ritornò loquace e allegro e si lasciò perfino andare a qualche battuta. A un tratto, però, dette in un sospiro profondo, doloroso, e picchiandosi la fronte con una gran manata: 'Ma si può essere più iellati di me' cominciò a lamentarsi 'se soltanto per aver voluto correre dietro a uno spettacolo di gladiatori di cui, si dicevano meraviglie, mi sono ridotto in questo stato. Ricordi che ero andato in Macedonia per il mio lavoro? Ebbene gli affari m'erano andati a gonfie vele e così, dopo nove mesi, stavo tornando a casa, ben fornito di quattrini, quando poco prima di giungere a Larissa, mi venne in mente di fare una capatina a quel famoso spettacolo, ma, in una valle impervia e deserta, fui assalito da una banda di briganti ferocissimi che mi lasciarono completamente al verde: per fortuna non ci rimisi la pelle e riuscii a raggiungere la locanda di una certa Meroe, una donna matura ma ancora belloccia, alla quale raccontai dei miei lunghi viaggi, del mio desiderio di tornare a casa e, infine, della rapina subita. Ella fu molto gentile, mi preparò gratis una graditissima cena e, alla fine, andata in fregola, mi portò a letto con lei. Scalogna maledetta, perché bastò che dormissi una sola notte con lei per impegolarmi in una di quelle relazioni che poi ti tiri dietro per anni: le diedi quei pochi stracci che i briganti mi avevano lasciato addosso, e pefino gli spiccioli che, facendo il facchino (allora ero ancora in gamba) mi venivo guadagnando. Ed ecco in quale stato tu l'hai visto, quella buona donna e la mia cattiva stella, mi hanno ridotto.'


    [8] "Pol quidem tu dignus" inquam "es extrema sustinere, si quid est tamen novissimo extremius, qui voluptatem Veneriam et scortum scorteum Lari et liberis praetulisti." At ille digitum a pollice proximum ori suo admovens et in stuporem attonitus "Tace, tace" inquit et circumspiciens tutamenta sermonis: "Parce" inquit "in feminam divinam, nequam tibi lingua intemperante noxam contrahas." "Ain tandem?" inquam. "Potens illa et regina caupona quid mulieris est?" "Saga" inquit "et divina, potens caelum deponere, terram suspendere, fontes durare, montes diluere, manes sublimare, deos infimare, sidera exstinguere, Tartarum ipsum inluminare." "Oro te" inquam "aulaeum tragicum dimoveto et siparium scaenicum complicato et cedo verbis communibus." "Vis" inquit "unum vel alterum, immo plurima eius audire facta? Nam ut se ament afflictim non modo incolae verum etiam Indi vel Aethiopes utrique vel ipsi Anticthones, folia sunt artis et nugae merae. Sed quod in conspectu plurium perpetravit, audi.

    - «'Perdio, te la meriti proprio una fregatura simile, e anche di peggio se fosse possibile, dal momento che invece di pensare alla tua casa, ai tuoi figli, ti sei messo a fare il galletto, e con una vecchia baldracca.'
    «'Zitto, per carità, zitto' fece quello tutto spaventato, portando l'indice alle labbra e volgendo il capo all'intorno come per assicurarsi che nessuno ascoltasse 'non parlare male di quella donna perché è una maga; questa tua linguaccia potrebbe procurarti qualche guaio.'
    «'Ma che stai dicendo? Che razza di donna è costei, questa tua bellezza da taverna?'
    «'È una maga, un'indovina' insistette 'capace di tirar giù la volta celeste e di sollevare la terra, di far diventare le fonti di sasso e liquefar le montagne, di riportare alla luce gli dei dell'inferno e inabissare quelli del cielo, di spegnere le stelle, di illuminare perfino il Tartaro.'
    «'Ma piantala, dài, con questa messinscena da tragedia, smettila di recitare e parla chiaro e naturale.'
    «'Vuoi che te ne racconti una o due o anche molte delle cose che ha fatte? Che gli uomini delle nostre parti si innamorino pazzamente di lei, anzi tutti gli indiani e gli africani dell'uno e dell'altro oceano e perfino le genti che abitano agli antipodi, è solo un piccolo segno della sua magia, una bazzecola. Ma sta a sentire quello che ha fatto, testimone un sacco di gente.


    [9] Amatorem suum, quod in aliam temerasset, unico verbo mutavit in feram castorem, quod ea bestia captivitatis metuens ab insequentibus se praecisione genitalium liberat, ut illi quoque simile [quod venerem habuit in aliam] proveniret. Cauponem quoque vicinum atque ob id aemulum deformavit in ranam, et nunc senex ille dolium innatans vini sui adventores pristinos in faece submissus officiosis roncis raucus appellat. Alium de foro, quod adversus eam locutus esset, in arietem deformavit, et nunc aries ille causas agit. Eadem amatoris sui uxorem, quod in eam dicacule probrum dixerat iam in sarcina praegnationis obsaepto utero et repigrato fetu perpetua praegnatione damnavit, et ut cuncti numerant, iam octo annorum onere misella illa velut elephantum paritura distenditur.

    - «'Con una sola parola ha mutato in castoro un suo amante che s'era messo con un'altra. E sai perché proprio in castoro? Perché questa bestia, quando è inseguita e teme di essere catturata, si stacca da sé i testicoli. Questo lei voleva che capitasse anche a quel suo amante che l'aveva piantata per un'altra.
    «'E ancora: ha trasformato un oste che era suo vicino e le faceva concorrenza, in un rospo: ora quel povero vecchio sguazza in una botte del suo vino immerso nella feccia fino alla gola e chiama con suoni rochi che vorrebbero essere amabili i suoi avventori di un tempo.
    «'Un altro l'ha trasformato in montone: era un avvocato che l'aveva calunniata e da montone ora difende le cause.
    «'Alla moglie di un suo amante che le aveva indirizzato una paroletta pepata ha tappato l'utero e poiché quella era incinta le ha bloccato il feto in corpo condannandola a una perpetua gravidanza. La gente ha fatto i conti, dice che sono otto anni ormai che la poveretta si porta dentro quel peso ed è gonfia come se dovesse partorire un elefante.


    [10] Quae cum subinde ac multi nocerentur, publicitus indignatio percrebuit statutumque ut ia eam die altera severissime saxorum iaculationibus vindicaretur. Quod consilium virtutibus cantionum antevortit et ut illa Medea unius dieculae a Creone impetratis indutiis totam eius domum filiamque cum ipso sene flammis coronalibus deusserat, sic haec devotionibus sepulchralibus in scrobem procuratis, ut mihi temulenta narravit proxime, cunctos in suis sibi domibus tacita numinum violentia clausit, ut toto biduo non claustra perfringi, non fores evelli, non denique parietes ipsi quiverint perforari, quoad mutua hortatione consone clamitarent quam sanctissime deierantes sese neque ei manus admolituros, et si quis aliud cogitarit salutare laturos subsidium. Et sic illa propitiata totam civitatem absolvit. At vero coetus illius auctorem nocte intempesta cum tota domo, id est parietibus et ipso solo et omni fundamento, ut erat, clausa ad centesimum lapidem in aliam civitatem summo vertice montis exasperati sitam et ob id ad aquas sterilem transtulit. Et quoniam densa inhabitantium aedificia locum novo hospiti non dabant, ante portam proiecta domo discessit."

    - «'Per queste e per tante altre vittime l'indignazione popolare crebbe a tal punto che un giorno venne deciso, senza tanti complimenti, di condannarla alla lapidazione. Ma lei con le sue arti magiche prevenne la sentenza; un po' come la famosa Medea che, ottenuta da Creonte una sola giornata di dilazione, con la fiamma sprigionata da una corona magica mise a fuoco tutta la reggia con dentro lui stesso e la figlia. Così questa Meroe, fatti alcuni sortilegi sopra un sepolcro (come mi confidò poco dopo tra i fumi del vino) ed evocando misteriose potenze soprannaturali, chiuse tutti nelle loro case tanto che per due interi giorni nessuno riuscì a sbloccare le serrature, a scardinare le porte, a sfondare le pareti.
    «'Questo finché, per consiglio comune, non la supplicarono ad una voce giurandole solennemente che non le avrebbero torto un capello, pronti, anzi, a proteggerla da chi avesse osato qualcosa contro di lei.
    «'Solo così' ella si rabbonì e liberò dall'incantesimo la città. Ma l'ideatore del complotto lasciò serrato in casa e questa, così com'era, pareti, pavimento, fondamenta, di notte tempo, fece volare cento miglia lontano, in un'altra città, posta in cima a una montagna dirupata e priva d'acqua. E poiché le case erano addossate le une alle altre e non c'era spazio per quella del nuovo venuto, te la scaraventò davanti a una porta della città e se ne andò.'


    [11] "Mira" inquam "set nec minus saeva, mi Socrates, memoras. Denique mihi quoque non parvam incussisti sollicitudinem, immo vero formidinem, iniecto non scrupulo sed lancea, ne quo numinis ministerio similiter usa sermones istos nostros anus illa cognoscat. Itaque maturius quieti nos reponamus et somno levata lassitudine noctis antelucio aufugiamus istinc quam pote longissime." Haec adhuc me suadente insolita vinolentia ac diuturna fatigatione pertentatus bonus Socrates iam sopitus stertebat altius. Ego vero adducta fore pessulisque firmatis grabatulo etiam pone cardinem supposito et probe adgesto super eum me recipio. Ac primum prae metu aliquantisper vigilo, dein circa tertiam ferme vigiliam paululum coniveo. Commodum quieveram, et repente impulsu maiore quam ut latrones crederes ianuae reserantur immo vero fractis et evolsis funditus cardinibus prosternuntur. Grabatus alioquin breviculus et uno pede mutilus ac putris impetus tanti violentia prosternitur, me quoque evolutum atque excussum humi recidens in inversum cooperit ac tegit.

    - «'Certo, caro Socrate, che le cose che mi racconti hanno dello straordinario e fanno venire i brividi. M'hai messo un'agitazione addosso, anzi proprio un bello spavento. Altro che pulce nell'orecchio, questo è un colpo di lancia se penso che quella vecchia, valendosi delle sue arti divine può benissimo venire a sapere di questi nostri discorsi.
    «'Perciò ficchiamoci subito buoni buoni sotto le coperte e, appena ci siamo un po' tolti di dosso la stanchezza, prima che faccia giorno, filiamocela di qui, quanto più lontano è possibile.'
    «Gli stavo ancora parlando per convincerlo, che quel buon Socrate già dormiva e russava di grosso, stanco della giornata e intontito dal vino cui non era più abituato. Così, chiusa la porta e bloccati i chiavistelli, anzi avvicinato il letto all'uscio e addossatovelo ben bene contro, mi coricai anch'io.
    «All'inizio, per la paura, non riuscii a chiudere occhio, poi verso mezzanotte mi appisolai. Ma avevo appena preso sonno che con un fracasso tremendo, certo assai maggiore di quello che avrebbero potuto fare dei ladri, i battenti della porta si spalancarono, i cardini si spezzarono e volarono via. Il mio lettuccio, piccoletto com'era e traballante e tarlato per giunta, a quel gran colpo si ribaltò rovinandomi addosso e io, finito per terra, vi rimasi sepolto.


    [12] Tunc ego sensi naturalitus quosdam affectus in contrarium provenire. Nam ut lacrimae saepicule de gaudio prodeunt, ita et in illo nimio pavore risum nequivi continere de Aristomene testudo factus. Ac dum in fimum deiectus obliquo aspectu quid rei sit grabatuli sollertia munitus opperior, video mulieres duas altioris aetatis; lucernam lucidam gerebat una, spongiam et nudum gladium altera: Hoc habitu Socratem bene quietum circumstetere. Infit illa cum gladio: "Hic est, soror Panthia, carus Endymion, hic Catamitus meus, qui diebus ac noctibus inlusit aetatulam meam, hic qui meis amoribus subterhabitis non solum me diffamat probris verum etiam fugam instruit. At ego scilicet Ulixi astu deserta vice Calypsonis aeternam solitudinem flebo." Et porrecta dextera meque Panthiae suae demonstrato: "At hic bonus" inquit "consiliator Aristomenes, qui fugae huius auctor fuit et nunc morti proximus iam humi prostratus grabattulo subcubans iacet et haec omnia conspicit, impune se laturum meas contumelias putat. Faxo eum sero, immo statim, immo vero iam nunc, ut et praecedentis dicacitatis et instantis curiositatis paeniteat."

    - «Come è vero che certe impressioni, a volte, producono reazioni contrarie. Capita spesso, per esempio, di piangere per la gioia; così, nonostante il terribile spavento io non potetti trattenere il riso vedendomi da Aristomene mutato in tartaruga. Steso per terra, coperto dal provvidenziale lettuccio, sbirciavo cosa stesse accadendo ed ecco che vidi entrare due donne di età piuttosto avanzata: l'una reggeva una lucerna accesa, l'altra una spugna e una spada ignuda. Con quel loro armamentario si avvicinarono a Socrate che se la dormiva placidamente:
    «'Caro il mio Endimione' esclamò quella che portava la spada 'eccolo qui, sorella Pantia, il mio Ganimede, quello che giorno e notte ha abusato della mia innocenza e che ora non soltanto mi diffama vigliaccamente ma si accinge a squagliarsela. Ma io, allora dovrei fare la fine di Calipso abbandonata dallo scaltro Ulisse e piangere la mia eterna solitudine?'
    «Poi con la mano tesa indicò me a sua sorella Pantia 'Ma guardalo là, Aristomene, questo bel consigliere, che ha avuto la bella pensata della fuga e che ora se ne sta mezzo morto accucciato sotto il letto a guardare illudendosi di passarla liscia dopo che mi ha coperto di improperi. Costui te lo servirò dopo a dovere, anzi no, all'istante si dovrà pentire della sua linguaccia e della sua curiosità, questo impenitente ficcanaso.'


    [13] Haec ego ut accepi, sudore frigido miser perfluo, tremore viscera quatior, ut grabattulus etiam succussu meo inquietus super dorsum meum palpitando saltaret. At bona Panthia: "Quin igitur", inquit "soror, hunc primum bacchatim discerpimus vel membris eius destinatis virilia desecamus?" Ad haec Meroë - sic enim reapse nomen eius tunc fabulis Socratis convenire sentiebam -: "Immo" ait "supersit hic saltem qui miselli huius corpus parvo contumulet humo," et capite Socratis in alterum dimoto latus per iugulum sinistrum capulo tenus gladium totum ei demergit et sanguinis eruptionem utriculo admoto excipit diligenter, ut nulla stilla compareret usquam. Haec ego meis oculis aspexi. Nam etiam, ne quid demutaret, credo, a victimae religione, immissa dextera per vulnus illud ad viscera penitus cor miseri contubernalis mei Meroë bona scrutata protulit, cum ille impetu teli praesecata gula vocem immo stridorem incertum per vulnus effunderet et spiritum rebulliret. Quod vulnus, qua maxime patebat, spongia offulciens Panthia: "Heus tu" inquit "spongia, cave in mari nata per fluvium transeas." His editis abeunt <et una> remoto grabattulo varicus super faciem meam residentes vesicam exonerant, quoad me urinae spurcissimae madore perluerent.

    - «Come intesi quelle parole cominciai a sudar freddo e presi a tremare tutto fin nelle viscere, tanto che anche il letto mi si mise a traballar sulla schiena, mentre l'amabile Pantia continuava: 'Allora, sorella, cominciamo con questo? Facciamo come le Baccanti? Lo riduciamo a pezzettini, oppure lo leghiamo e poi gli tagliamo i testicoli?'
    «'Ma no,' replicò Meroe (a quel che me ne aveva detto Socrate, questo nome le si addiceva proprio), 'che resti vivo, invece, così getterà una manciata di terra sul corpo di questo miserabile' e, così dicendo, rovesciata la testa di Socrate da un lato, gli immerse la spada nel collo fino all'elsa; poi accostò alla ferita un piccolo otre e ne raccolse il sangue che sgorgava a fiotti, senza farne cadere nemmeno una goccia. Con questi occhi io vedevo tutta la scena. Poi l'ottima Meroe, per adempiere, credo, in tutto e per tutto al rituale di un sacrificio in piena regola, affondò la mano in quella ferita, frugò dentro fino alle viscere e trasse il cuore di quel povero amico mio che, dalla gola tutta squarciata per la violenza del colpo, ancora mandava una voce, un sibilo indistinto, un gorgoglio.
    «'O spugna nata dal mare' intanto cantilenava Pantia e tamponava con la spugna la ferita là dov'era più larga 'acqua di fiume non sorpassare.'
    «Compiuta ogni cosa se ne andarono; prima però mi tolsero il letto di dosso, si piazzarono sopra di me a gambe divaricate e mi pisciarono in faccia inondandomi tutto del loro fetore.


    [14] Commodum limen evaserant, et fores ad pristinum statum integrae resurgunt: cardines ad foramina residunt, <ad> postes [ad] repagula redeunt, ad claustra pessuli recurrunt. At ego, ut eram, etiam nunc humi proiectus inanimis nudus et frigidus et lotio perlutus, quasi recens utero matris editus, immo vero semimortuus, verum etiam ipse mihi supervivens et postumus vel certe destinatae iam cruci candidatus : "Quid" inquam "me fiet, ubi iste iugulatus mane paruerit? Cui videbor veri similia dicere proferens vera? "Proclamares saltem suppetiatum, si resistere vir tantus mulieri nequibas. Sub oculis tuis homo iugulatur, et siles? Cur autem te simile latrocinium non peremit? Cur saeva crudelitas vel propter indicium sceleris arbitro pepercit? Ergo, quoniam evasisti mortem, nunc illo redi." Haec identidem mecum replicabam, et nox ibat in diem. Optimum itaque factu visum est anteluculo furtim evadere et viam licet trepido vestigio capessere. Sumo sarcinulam meam, subdita clavi pessulos reduco; at illae probae et fideles ianuae, quae sua sponte reseratae nocte fuerant, vix tandem et aegerrime tunc clavis suae crebra immissione patefiunt.

    - «Avevano appena varcata la soglia che i battenti della porta si drizzarono e si rimisero intatti al loro posto, i cardini ciascuno nel loro buco, i chiavistelli negli infissi, i catenacci nei loro anelli, tutto come prima. Io solo, invece mi ritrovai disteso per terra senza fiato, nudo e gelato, fradicio per giunta di piscio come se fossi appena uscito dal ventre di mia madre, più morto che vivo, eppure, nonostante tutto, un sopravvissuto, un relitto di me stesso e un sicuro candidato alla croce.
    «'Che ne sarà di me' gemevo 'quando domani mattina troveranno quest'uomo scannato? Chi mi crederà quando racconterò per filo e per segno come sono andate le cose? Avresti per lo meno potuto gridare, mi ribatteranno, chiedere aiuto se ti mancava il coraggio, grande e grosso come sei, di tener testa a una donna. Ma come, si sgozza un uomo sotto i tuoi occhi e tu te ne stai in silenzio a guardare? E poi come mai delinquenti di tal razza non hanno fatto fuori anche te? Perché nella loro ferocia ti avrebbero risparmiato? Un testimone per giunta così compromettente del loro delitto? Comunque visto che sei scampato alla morte, va a fare compagnia all'amico tuo.'
    «Questi pensieri rimuginavo dentro di me e intanto cominciava a far giorno. La cosa migliore era quella di filarmela prima che venisse chiaro, fare della strada anche se le gambe mi tremavano. Così presi il mio sacco, infilai la chiave nella serratura e, gira e rigira, dovetti fare una fatica boia prima di riuscire ad aprire quella porta sicura e amica che durante la notte s'era spalancata da sé.


    [15] Et "Heus tu, ubi es?" inquam; "valvas stabuli absolve, antelucio volo ire." Ianitor pone stabuli ostium humi cubitans etiam nunc semisomnus: "Quid? Tu" inquit "ignoras latronibus infestari vias, qui hoc noctis iter incipis? Nam etsi tu alicuius facinoris tibi conscius scilicet mori cupis, nos cucurbitae caput non habemus ut pro te moriamur." "Non longe" inquam "lux abest. Et praeterea quid viatori de summa pauperie latrones auferre possunt? An ignoras, inepte, nudum nec a decem palaestritis despoliari posse?" Ad haec ille marcidus et semisopitus in laterum latus revolutus: "Unde autem" inquit "scio an convectore illo tuo, cum quo sero devorteras, iugulato fugae mandes praesidium?" Illud horae memini me terra dehiscente ima Tartara inque his canem Cerberum prorsus esurientem mei prospexisse. Ac recordabar profecto bonam Meroën non misericordia iugulo meo pepercisse, sed saevitia cruci me reservasse.

    - «'Ohilà, dove sei?' cominciai a gridare, 'aprimi il portone, che voglio andarmene prima di giorno.'
    «II portinaio che era disteso giusto dietro l'uscio della locanda, mezzo addormentato mi fece: 'Ma come? Vuoi metterti in cammino a quest'ora di notte? Non sai che le strade sono infestate dai briganti? Se hai scelto di morire perché hai la coscienza sporca io non sono mica tanto, grullo da fare la stessa fine per causa tua.'
    «'Tra poco è giorno,' gli risposi 'e poi, ché cosa possono prendergli i briganti a un viandante così al verde come me? Ma ti rendi conto, balordo che sei, che nemmeno dieci campioni di lotta possono spogliare uno che è già nudo?' Ma quello, voltandosi dall'altra parte, morto di sonno e intontito com'era, mi rimbeccò: 'E che ne so io se tu non hai scannato il tuo compagno di viaggio col quale sei giunto ier sera, ed ora cerchi di metterti in salvo?'
    «Allora sì che la terra mi parve spalancarsi sotto i piedi e io precipitare giù fin nel Tartaro in bocca all'affamato Cerbero; e capii che la buona Meroe non per misericordia aveva risparmiato la mia gola ma per riservarmi, nella sua ferocia, alla croce.


    [16] In cubiculum itaque reversus de genere tumultuario mortis mecum deliberabam. Sed cum nullum alium telum mortiferum Fortuna quam solum mihi grabattulum subministraret, "Iam iam grabattule" inquam "animo meo carissime, qui mecum tot aerumnas exantlasti conscius et arbiter quae nocte gesta sunt, quem solum in meo reatu testem innocentiae citare possum, tu mihi ad inferos festinanti sumministra telum salutare," et cum dicto restim, qua erat intextus, adgredior expedire ac tigillo, quod fenestrae subditum altrinsecus prominebat, iniecta atque obdita parte funiculi et altera firmiter in nodum coacta ascenso grabattulo ad exitium sublimatus et immisso capite laqueum induo. Sed dum pede altero fulcimentum quo sustinebar repello, ut ponderis deductu restis ad ingluviem adstricta spiritus officia discluderet, repente putris alioquin et vetus funis dirumpitur, atque ego de alto recidens Socraten - nam iuxta me iacebat - superruo cumque eo in terram devolvor.

    - «Così tornai in camera pensando al modo più spiccio di darmi la morte. Ma non mettendomi la sorte a portata di mano alcuna arma mortale se non il mio letto, così a lui mi rivolsi: 'Caro lettuccio mio che dividesti con me tutti i miei guai, che sei stato testimone oculare di quanto è accaduto stanotte, tu che solo potrei citare a prova della mia innocenza, porgimi l'arma liberatrice che mi mandi alla svelta all'inferno.'
    «Così dicendo sciolsi la reticella di corda che formava il piano del letto e legatone un capo a una trave che sporgeva sopra la finestra, feci con l'altra estremità un nodo scorsoio, salii sul letto ormai votato alla morte e infilai la testa nel cappio. Ma non appena, con una pedata, scaraventai lontano il sostegno che mi sorreggeva perché, per il peso del corpo, il cappio stringesse la gola e mi togliesse il respiro, la corda, marcia com'era, si spezzò ed io precipitai addosso a Socrate che giaceva lì accanto e con lui rotolai per terra.


    [17] Et ecce in ipso momento ianitor introrumpit exserte clamitans: "Ubi es tu qui alta nocte festinabas et nunc stertis involutus?" Ad haec nescio an casu nostro an illius absono clamore experrectus Socrates exsurgit prior et "Non" inquit "inmerito stabularios hos omnes hospites detestantur. Nam iste curiosus dum inportune irrumpit -- credo studio rapiendi aliquid -- clamore vasto marcidum alioquin me altissimo somno excussit." Emergo laetus atque alacer insperato gaudio perfusus et: "Ecce, ianitor fidelissime, comes [et pater meus] et frater meus, quem nocte ebrius occisum a me calumniabaris", et cum dicto Socraten deosculabar amplexus. At ille, odore alioquin spurcissimi humoris percussus quo me Lamiae illae infecerant, vehementer aspernatur: "Apage te" inquit "fetorem extremae latrinae", et causas coepit huius odoris comiter inquirere. At ego miser adficto ex tempore absurdo ioco in alium sermonem intentionem eius denuo derivo et iniecta dextra: "Quin imus" inquam "et itineris matutini gratiam capimus?" Sumo sarcinulam et pretio mansionis stabulario persoluto capessimus viam.

    - «In quel mentre irruppe in camera il portinaio, urlando: 'Dove diavolo sei tu che, in piena notte, avevi tanta furia di partire e ora te ne sei tornato a russare fra le coperte?'
    «In quel momento, non so se per il mio ruzzolone o per il gran baccano di quell'uomo, Socrate saltò su esclamando: 'Quanta ragione hanno quei viaggiatori che non possono soffrire gli albergatori. Questo rompiballe ti vien dentro magari con l'intenzione di fregare qualcosa, e col suo blaterare mi sveglia, sfinito com'ero, proprio nel sonno migliore.'
    «Anch'io balzai in piedi, preso da una gioia insperata: 'Eccolo, bravo portinaio, eccolo qui l'amico mio, il mio fratellino, quello che tu, stanotte, ubriaco fradicio com'eri, andavi insinuando che avevo assassinato.' E, intanto, baciavo e abbracciavo Socrate che però, protestando, mi respingeva con violenza schifato dal fetore di piscio che quelle streghe mi avevano lasciato addosso: 'Va via' mi diceva 'che puzzi peggio di un fondo di latrina.'
    «Poi, scherzandoci su, mi chiese la ragione di quel fetore. Io, poveretto, gli inventai una frottola per sviare il discorso e con una manata sulle spalle: 'Che aspettiamo ad andarcene?' gli dissi 'Perché non approfittiamo del fresco del mattino?'
    «Presi quel po' di roba che avevo, pagai il conto all'albergatore e ci mettemmo in cammino.


    [18] Aliquantum processeramus, et iam iubaris exortu cuncta conlustrantur. Et ego curiose sedulo arbitrabar iugulum comitis, qua parte gladium delapsum videram, et medum: "Vesane," aio "qui poculis et vino sepultus extrema somniasti. Ecce Socrates integer sanus incolumis. Ubi vulnus? Spongia <ubi>? Ubi postremo cicatrix tam alta, tam recens?" Et ad illum: "Non" inquam "immerito medici fidi cibo et crapula distentos saeva et gravia somniare autumant: mihi denique, quod poculis vesperi minus temperavi, nox acerba diras et truces imagines optulit, ut adhuc me credam cruore humano aspersum atque impiatum." Ad haec ille subridens: "At tu" inquit "non sanguine sed loto perfusus es. Verum tamen et ipse per somnium iugulari visus sum mihi, nam et iugulum istum dolui et cor ipsum mihi avelli putavi, et nunc etiam spiritu deficior et genua quatior et gradu titubo et aliquid cibatus refovendo spiritu desidero." "En" inquam "paratum tibi adest ientaculum", et cum dicto manticam meam humero exuo, caseum cum pane propere ei porrigo, et "Iuxta platanum istam residamus" aio.

    - «Avevamo già fatta un bel po' di strada e il sole, ormai alto, illuminava ogni cosa all'intorno. Io, intanto, non facevo che guardare con curiosità e apprensione la gola del mio compagno, là dove avevo visto penetrare la spada e mi dicevo: 'Ma guarda un po' che matto. Ne devi aver scolati di bicchieri ed essere stato ben sbronzo per fare sogni così assurdi. Eccotelo qua Socrate, sano e vegeto. E dov'è la ferita, dove la spugna e quell'orribile piaga sanguinante?'
    «Poi rivolto a lui: 'Non hanno mica torto quei gran dottori quando dicono che chi mangia molto e alza troppo il gomito poi fa brutti sogni. Prendi me, per esempio ieri sera mi son lasciato andare alle libagioni e così ho passato una notte infernale, piena di incubi spaventosi, tanto che mi sembra ancora di esser tutto imbrattato di sangue umano.'
    «'Ma che sangue e sangue,' mi sogghignò, 'pieno di piscio sei. Però ho fatto un sogno anch'io mi pareva che mi sgozzassero; sentivo un gran dolore qui alla gola e come se mi strappassero il cuore; pure ora mi manca il respiro, mi tremano le ginocchia e mi par di cadere. Sento proprio il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti per riprendere le forze.'
    «'Eccoti servita la colazione' e, detto fatto, mi tolsi il sacco dalle spalle e gli offrii del pane con del formaggio. 'Anzi,' gli feci, 'sediamoci la, sotto quel platano.'


    [19] Quo facto et ipse aliquid indidem sumo eumque avide essitantem aspiciens aliquanto intentiore macie atque pallore buxeo deficientem video. Sic denique eum vitalis color turbaverat ut mihi prae metu, nocturnas etiam Furias illas imaginanti, frustulum panis quod primum sumpseram quamvis admodum modicum mediis faucibus inhaereret ac neque deorsum demeare neque sursum remeare posset. Nam et brevitas ipsa commeantium metum mihi cumulabat. Quis enim de duobus comitum alterum sine alterius noxa peremptum crederet? Verum ille, ut satis detruncaverat cibum, sitire inpatienter coeperat; nam et optimi casei bonam partem avide devoraverat, et haud ita longe radices platani lenis fluvius in speciem placidae paludis ignavus ibat argento vel vitro aemulus in colorem. "En" inquam "explere latice fontis lacteo." Adsurgit et oppertus paululum pleniorem ripae marginem complicitus in genua adpronat se avidus adfectans poculum. Necdum satis extremis labiis summum aquae rorem attigerat, et iugulo eius vulnus dehiscit in profundum patorem et illa spongia de eo repente devolvitur eamque parvus admodum comitatur cruor. Denique corpus exanimatum in flumen paene cernuat, nisi ego altero eius pede retento vix et aegre ad ripam superiorem adtraxi, ubi defletum pro tempore comitem misellum arenosa humo in amnis vicinia sempiterna contexi. Ipse trepidus et eximie metuens mihi per diversas et avias solitudines aufugi et quasi conscius mihi caedis humanae relicta patria et lare ultroneum exilium amplexus nunc Aetoliam novo contracto matrimonio colo."

    - «Così facemmo e anch'io trassi fuori qualcosa da mangiare per me e intanto lo osservavo. Ed ecco che mentre mangiava avidamente lo vidi, tutto a un tratto, impallidire, farsi livido livido come uno stecco. Man mano che perdeva colore io rivedevo l'orribile scena della notte e, per lo spavento, il pezzo di pane che avevo messo in bocca, benché piccolo, mi si piantò nel gozzo, tanto che non riuscivo a mandarlo né su né giù.
    «Non passava di lì molta gente e questo accresceva il mio terrore. Chi avrebbe creduto che di due compagni uno era morto senza che l'altro ne sapesse nulla? Socrate, intanto, che s'era ingozzato di pane e aveva fatto fuori quasi tutto il formaggio, ora si sentiva bruciare dalla sete. Poco lontano dal nostro platano scorreva un filo d'acqua ma così lento da formare una pozza limpida e chiara come argento o vetro.
    «'Eccoti là dell'acqua' gli dissi 'bianca come il latte.'
    «Egli si alzò, s'accostò alla riva là dove questa era più bassa e fece per inginocchiarsi e bere con avidità ma non aveva ancora accostato le labbra all'acqua che il collo gli si aprì in un largo e profondo squarcio e ne venne fuori la spugna e un po' di sangue. Era morto, e sarebbe caduto in acqua se io, appena in tempo, afferrandolo prontamente per un piede, non lo avessi tirato su a fatica. E lì, su quella riva, come potetti, date le circostanze, piansi l'infelice compagno: scavai una fossa nella sabbia e ve lo chiusi per sempre.
    «Ero pieno di paura, temevo guai peggiori e così mi misi a fuggire qua e là per luoghi desolati e deserti e, quasi avessi sulla coscienza un delitto, lasciai la mia patria, la mia casa e scelsi un volontario esilio.
    «Ora vivo in Etolia e mi sono fatta uma nuova famiglia.»


    [20] Haec Aristomenes. At ille comes eius, qui statim initio obstinata incredulitate sermonem eius respuebat: "Nihil" inquit "hac fabula fabulosius, nihil isto mendacio absurdius", et ad me conversus: "Tu autem" inquit "vir ut habitus et habitudo demonstrat ornatus accedis huic fabulae?" "Ego vero" inquam "nihil impossibile arbitror, sed utcumque fata decreverint ita cuncta mortalibus provenire: nam et mihi et tibi et cunctis hominibus multa usu venire mira et paene infecta, quae tamen ignaro relata fidem perdant. Sed ego huic et credo hercules et gratas gratias memini, quod lepidae fabulae festivitate nos avocavit, asperam denique ac prolixam viam sine labore ac taedio evasi. Quod beneficium etiam illum vectorem meum credo laetari, sine fatigatione sui me usque ad istam civitatis portam non dorso illius sed meis auribus pervecto."

    - Questo il racconto di Aristomene, ma il suo compagno, che fin dall'inizio s'era rifiutato di credere a una sola parola, esclamò: «Non c'è storia più fantastica, più assurda di questa.» E rivolto a me: «E tu che mi sembri una persona seria almeno dall'apparenza, ci credi a questa storia?»
    «Mah,» feci io, «veramente tutto è possibile a questo mondo e quello che capita agli uomini è scritto nel destino: a me, a te, a tutti possono succedere cose strabilianti, inaudite, che se le vai a raccontare a chi non ne è stato toccato, nessuno ti crede. Io invece ci credo a quello che ha raccontato l'amico, e come, e per di più lo ringrazio perché con la sua storia, col suo fare piacevole ci ha un po' svagati e mi ha fatto sembrare meno noioso e lungo questo viaggio. Se n'è giovato anche il mio cavallo che non ha poi fatto una gran fatica, dal momento che sono arrivato alle porte della città non sulla sua schiena ma con le mie orecchie.»


    [21] Is finis nobis et sermonis et itineris communis fuit. Nam comites uterque ad villulam proximam laevorsum abierunt. Ego vero quod primum ingressui stabulum conspicatus sum accessi et de quadam anu caupona ilico percontor: "Estne" inquam "Hypata haec civitas?". Adnuit. "Nostine Milonem quendam e primoribus?" Adrisit et: "Vere" inquit "primus istic perhibetur Milo, qui extra pomerium et urbem totam colit.". "Remoto" inquam "ioco, parens optima, dic oro et cuiatis sit et quibus deversetur aedibus". "Videsne" inquit "extremas fenestras, quae foris urbem prospiciunt, et altrinsecus fores proxumum respicientes angiportum? Inibi iste Milo deversatur ampliter nummatus et longe opulentus verum extremae avaritiae et sordis infimae infamis homo, foenus denique copiosum sub arrabone auri et argenti crebriter exercens, exiguo Lare inclusus et aerugini semper intentus, cum uxorem etiam calamitatis suae comitem habeat. Neque praeter unicam pascit ancillulam et habitu mendicantis semper incedit."

    - Così finì il viaggio e anche la nostra conversazione. I due, infatti, svoltarono a sinistra, verso una casupola lì vicino, io, invece, tirai dritto e m'infilai nella prima taverna che vidi.
    «È Ipata questa?» chiesi alla vecchia ostessa. E quando ella annuì: «Conosci un certo Milone? Da queste parti dovrebbe essere tra le persone più in vista.» «Certo,» fece lei ridendo, «Milone è proprio uno ben in vista: sta di casa oltre il pomerio fuori di città.»
    «Lascia stare le battute, buona donna,» gli feci «e dimmi, piuttosto che tipo d'uomo è e dove abita.»
    «Vedi quelle finestre lì in fondo, che guardano fuori di città e quella porta alle spalle che s'apre sul vicolo? Là sta il tuo Milone; denari a montagne, ricco sfondato; lo conoscono tutti, ma per la spilorceria; un avaraccio che non ti dico; pratica l'usura, e in grande, su pegni d'oro e d'argento; se ne sta tappato nel suo bugigattolo sempre a contare e a lustrare denaro, assieme a sua moglie che ha la stessa malattia. Si concede una sola servetta e va in giro vestito come un mendicante.»
    A queste parole sbottai in una risata: «E bravo l'amico Demea! Mi ha proprio ben sistemato per questo viaggio indirizzandomi a un tipo simile. Certo che da un tale ospite non dovrò temere né odor di fumo né tantomeno di arrosto.»


    [22] Ad haec ego risum subicio: "Benigne" inquam "et prospicue Demeas meus in me consuluit, qui peregrinaturum tali viro conciliavit, in cuius hospitio nec fumi nec nidoris nebulam vererer"; et cum dicto modico secus progressus ostium accedo et ianuam firmiter oppessulatam pulsare vocaliter incipio. Tandem adulescentula quaedam procedens: "Heus tu" inquit "qui tam fortiter fores verberasti, sub qua specie mutari cupis? An tu solus ignoras praeter aurum argentumque nullum nos pignus admittere?" "Meliora" inquam "ominare et potius responde an intra aedes erum tuum offenderim." "Plane," inquit "sed quae causa quaestionis huius?" "Litteras ei a Corinthio Demea scriptas ad eum reddo." "Dum annuntio," inquit "hic ibidem me opperimino", et cum dicto rursum foribus oppessulatis intro capessit. Modico deinde regressa patefactis aedibus: "Rogat te" inquit. Intuli me eumque accumbentem exiguo admodum grabattulo et commodum cenare incipientem invenio. Assidebat pedes uxor et mensa vacua posita, cuius monstratu: "En" inquit "hospitium." "Bene" ego, et ilico ei litteras Demeae trado. Quibus properiter lectis: "Amo" inquit "meum Demeam qui mihi tantum conciliavit hospitem".

    - Così dicendo feci pochi passi e, arrivato sulla soglia, cominciai a bussare alla porta, ch'era sprangata a dovere con tanto di catenacci, e a chiamare. Finalmente comparve una ragazzotta: «Ehi, tu, che bussi con tanta furia,» mi fece «che pegno hai per il prestito che desideri? Lo sai o no che si accettano solo pegni d'oro e d'argento?»
    «Potresti anche parlare con più creanza» le risposi. «Intanto dimmi se il tuo padrone è in casa.»
    «Certo che è in casa, ma perché me lo domandi?»
    «Ho per lui una lettera di Demea da Corinto.»
    «Glielo vado a dire; tu, intanto, aspetta qui» e mi sbatté la porta sulla faccia tornando a sprangarla a doppia mandata. Dopo un po' ricomparve spalancando i battenti: «Ti puoi accomodare» fece.
    Entrai e me lo vidi davanti, sdraiato su un lettuccio striminzito, che si accingeva a cenare. Gli stava seduta accanto la moglie ma la mensa era vuota. «Ecco quel che posso offrirti» mi fece, mostrandomi la tavola.
    «Obbligatissimo» e gli consegnai la lettera di Demea. Dopo averla letta alla svelta esclamò: «Ma che caro il mio Demea, che mi ha mandato un ospite così di riguardo.»


    [23] Et cum dicto iubet uxorem decedere utque in eius locum adsistam iubet meque etiam nunc verecundia cunctantem adrepta lacinia detrahens: "Adside" inquit "istic. Nam prae metu latronum nulla sessibula ac ne sufficientem supellectilem parare nobis licet." Feci. Et sic: "Ego te" inquit "etiam de ista corporis speciosa habitudine deque hac virginali prorsus verecundia generosa stirpe proditum et recte conicerem. Sed et meus Demeas eadem litteris pronuntiat. Ergo brevitatem gurgustioli nostri ne spernas peto. Erit tibi adiacens en ecce illud cubiculum honestum receptaculum. Fac libenter deverseris in nostro. Nam et maiorem domum dignatione tua feceris et tibi specimen gloriosum adrogaris, si contentus lare parvulo Thesei illius cognominis patris tui virtutes aemulaveris, qui non est aspernatus Hecales anus hospitium tenue", et vocata ancillula: "Photis" inquit "sarcinulas hospitis susceptas cum fide conde in illud cubiculum ac simul ex promptuario oleum unctui et lintea tersui et cetera hoc eidem usui profer ociter et hospitem meum produc ad proximas balneas; satis arduo itinere atque prolixo fatigatus est."

    - Al tempo stesso disse alla moglie di allontanarsi e a me di sedere al suo posto, ma vista la mia esitazione: -“Siediti pure qui” mi fece, prendendomi per il mantello e quasi tirandomi già, “purtroppo per la paura dei ladri io non mi arrischio ad avere sedie né tantomeno, mobilio a sufficienza.”
    Gli obbedii e quello riprese: “Dai tuoi modi così urbani e dal tuo riserbo quasi di fanciulla, non è difficile intuire la nobiltà della tua famiglia. Del resto la lettera di Demea lo conferma. Ti prego, perciò, di non sdegnare il mio modestissimo tetto. Per te c'è la stanza qui accanto, comoda e accogliente; vedrai che non ti troverai male a casa mia. Se ti degnerai di restare questa casa sembrerà più grande e tu ne trarrai motivo di gloria perchè avrai fatto come Teseo di cui tuo padre porta il nome, che non disprezzò la modesta ospitalità della vecchia Ecale.”
    Poi chiama la servetta: “Fotide, prendi i bagagli dell'ospite e mettili in quella stanza, ma fa piano; e tira fuori dall'armadio l'olio per ungersi, i panni per asciugarsi, insomma tutto l'occorrente e accompagna il signore alle terme qui vicino: il suo viaggio è stato lungo e faticoso e dev'essere molto stanco.”


    [24] His ego auditis mores atque parsimoniam ratiocinans Milonis volensque me artius ei conciliare: "Nihil" inquam "rerum istarum, quae itineris ubique nos comitantur, indigemus. Sed et balneas facile percontabimur. Plane, quod est mihi summe praecipuum, equo, qui me strenue pervexit, faenum atque ordeum acceptis istis nummulis tu, Photis, emito." His actis et rebus meis in illo cubiculo conditis pergens ipse ad balneas, ut prius aliquid nobis cibatui prospicerem, forum cupidinis peto, inque eo piscatum opiparem expositum video et percontato pretio, quod centum nummis indicaret, aspernatus viginti denariis praestinavi. Inde me commodum egredientem continatur Pythias condiscipulus apud Athenas Atticas meus, qui me post aliquantum multum temporis amanter agnitum invadit, amplexusque ac comiter deosculatus: "Mi Luci," ait "sat pol diu est quod intervisimus te, at hercules exinde cum a Clytio magistro digressi sumus. Quae autem tibi causa peregrinationis huius?" "Crastino die scies," inquam. "Sed quid istud? Voti gaudeo. Nam et lixas et virgas et habitum prorsus magistratui congruentem in te video." "Annonam curamus" ait "et aedilem gerimus et siquid obsonare cupis utique commodabimus." Abnuebam, quippe qui iam cenae affatim piscatum prospexeramus. Sed enim Pythias visa sportula succussisque in aspectum planiorem piscibus: "At has quisquilias quanti parasti?" "Vix" inquam "piscatori extorsimus accipere viginti denarium."

    - Sentendo questo e ripensando alla tirchieria di Milone, e volendomelo fare amico: «Lascia stare, non ho bisogno di tutta questa roba, perché quando viaggio io me la porto sempre con me; quanto alle terme vedrai che saprò trovarle da solo. Piuttosto, quello che mi preme di più è il mio cavallo, che mi ha portato fin qui senza intoppi. Prendi questi spiccioli, Fotide, e va a comprargli fieno e biada.»
    Dopo di che portai il bagaglio in camera e mi avviai verso le terme, passando però dal mercato per comprare qualcosa da mangiare. C'era del bellissimo pesce; ne chiesi il prezzo e mi fu offerto per cento sesterzi; feci finta di andarmene e lo ebbi per venti denari.
    Me ne stavo già venendo via quando incontrai Pitia, un vecchio compagno di studi, ad Atene, che subito mi riconobbe nonostante fosse ormai trascorso molto tempo: «Lucio carissimo,» esclamò gettandomi le braccia al collo e baciandomi affettuosamente, «da quanti anni che non ci vediamo, santo cielo ne è passato del tempo da che lasciammo la scuola del maestro Clitio! Ma tu, come mai da queste parti?»
    «Domani te lo dirò» gli risposi. «Tu, piuttosto, che roba è questa? Complimenti: littori, fasci, mi vedo davanti un magistrato coi fiocchi!»
    «Sì, sono edile e dirigo l'annona; se sei qui per acquisti disponi pure di me.»
    Gli dissi di no perché avevo già comprato del pesce per la cena, ma Pitia, vista la sporta e rivoltati i pesci per esaminarli meglio: «Quanto l'hai pagata questa robaccia?» «A stento sono riuscito a farmela dare da un pescatore per venti denari.»


    [25] Quo audito statim adrepta dextera postliminio me in forum cupidinis reducens: "Et a quo" inquit "istorum nugamenta haec comparasti?" Demonstro seniculum: in angulo sedebat. Quem confestim pro aedilitatis imperio voce asperrima increpans: "Iam iam" inquit "nec amicis quidem nostris vel omnino ullis hospitibus parcitis, quod tam magnis pretiis pisces frivolos indicatis et florem Thessalicae regionis ad instar solitudinis et scopuli edulium caritate deducitis? Sed non impune. Iam enim faxo scias quem ad modum sub meo magisterio mali debeant coërceri", et profusa in medium sportula iubet officialem suum insuper pisces inscendere ac pedibus suis totos obterere. Qua contentus morum severitudine meus Pythias ac mihi ut abirem suadens: "Sufficit mihi, o Luci," inquit "seniculi tanta haec contumelia." His actis consternatus ac prorsus obstupidus ad balneas me refero prudentis prudentis condiscipuli valido consilio et nummis simul privatus et cena, lautusque ad hospitium Milonis ac dehinc cubiculum me reporto.

    - Subito mi afferrò per un braccio e mi ricondusse al mercato chiedendomi da quale venditore avessi comprato quella porcheria. Gli indicai un vecchietto che se ne stava seduto in un angolo e subito egli, forte della sua autorità di edile, lo investì con voce terribile: «Non avete riguardo ormai né dei miei amici né tanto meno dei forestieri, voialtri, se vendete a prezzi così alti finanche pesciolini da nulla. Ma per il carovita volete ridurre a un arido deserto, a uno scoglio brullo questa città che è il fiore della Tessaglia? Ma non la passerete liscia. Quanto a te ti farò vedere io, finché sono in carica, come si puniscono i bricconi!» e, svuotata la sporta per terra, ordinò a una guardia del seguito di montare con i piedi sopra quei pesci e di spiaccicarli. Poi tutto soddisfatto per avermi dato una prova della sua autorità, il caro Pitia mi consigliò di allontanarmi. «Mi basta, caro Lucio,» concluse, «di aver data una bella lezione al nonnino!»
    Rimasi esterrefatto, addirittura basito e lemme lemme mi avviai verso le terme. Grazie alla bella sparata del mio saggio compagno di studi, io mi ritrovai senza i quattrini e senza cena.
    Dopo il bagno feci ritorno a casa, da Milone, e mi ritirai in camera mia.


    [26] Et ecce Photis ancilla: "Rogat te" inquit "hospes." At ego iam inde Milonis abstinentiae cognitor excusavi comiter, quod viae vexationem non cibo sed somno censerem diluendam. Isto accepto pergit ipse et iniecta dextera clementer me trahere adoritur. Ac dum cunctor, dum moleste renitor: "Non prius" inquit "discedam quam me sequaris", et dictum iure iurando secutus iam obstinationi suae me ingratiis oboedientem perducit ad illum suum grabattulum et residenti: "Quam salve agit" inquit "Demeas noster? Quid uxor? Quid liberi? Quid vernaculi? " Narro singula. Percontatur accuratius causas etiam peregrinationis meae. Quas ubi probe protuli, iam et de patria nostra et eius primoribus ac denique de ipso praeside scrupulosissime explorans, ubi me post itineris tam saevi vexationem sensit fabularum quoque serie fatigatum in verba media somnolentum desinere ac nequicquam, defectum iam, incerta verborum salebra balbuttire, tandem patitur cubitum concederem. Evasi aliquando rancidi senis loquax et famelicum convivium somno non cibo gravatus, cenatus solis fabulis, et in cubiculum reversus optatae me quieti reddidi.

    - Ma ecco Fotide, la servetta, ad avvertirmi che il padrone mi cercava, ed io, che ormai conoscevo quanto Milone fosse spilorcio, a schernirmi con belle maniere, dicendo che avevo più bisogno di sonno che di cibo per smaltire lo strapazzo del viaggio. Ma lui a precipitarsi di persona, a prendermi per un braccio e, tutto cerimonioso, a tirarmi con sé. Io cercavo di tergiversare, di resistergli con garbo ma quello a insistere: «Non mi muoverò di qui fino a quando non mi avrai seguito» e accompagnando queste parole con un giuramento, riuscì a rimorchiarmi fino a quel suo lettuccio. Alle sue insistenze, di mala voglia, fui costretto a sedermi e lui a chiedermi come se la passasse Demea, la moglie, i figli, la gente di casa ed io a metterlo al corrente di tutto. Poi volle sapere per filo e per segno le ragioni del mio viaggio ed io a riferirgliele tutte nei minimi particolari e lui ancora a interrogarmi della mia patria, dei cittadini più in vista, perfino del governatore, fino a quando non capì che ero troppo stanco del viaggio, stremato da tutte quelle chiacchiere e mezzo morto di sonno, al punto da lasciare a metà le frasi e biascicare appena qualche parola sconnessa. Solo allora si rassegnò a mandarmi a dormire.


    Fonte: SplashLatino.it
     
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