G. Verga: La Lupa - Riassunto e Analisi del testo

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  1. punKt89
     
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    G. Verga: La Lupa - Riassunto e Analisi del testo




    RIASSUNTO

    Nel villaggio dove viveva, la chiamavano la Lupa perché ella non era mai sazia delle relazioni che aveva con gli uomini e le altre donne avevano paura di lei perché ella attirava con la sua bellezza i loro mariti e i loro figli anche se solo li guardava. Di ciò soffriva la figlia, Maricchia, che sapeva che non avrebbe trovato un marito.

    Una volta la Lupa si era innamorata di un giovane, Nanni, che mieteva il grano con lei, e lo guardava avidamente e lo seguiva; una sera gli dichiarò il suo amore e lui rispose che voleva in sposa Maricchia, ella se ne andò via per ripresentarsi ad ottobre per la spremitura delle olive e gli offrì in sposa Maricchia e Nanni accettò, ma sua figlia non ne voleva sapere ma la costrinse con le minacce. Maricchia aveva già dato dei figli a Nanni, e la Lupa aveva deciso di non farsi più vedere, anche perché lavorava molto durante la giornata. Un pomeriggio caldo svegliò Nanni che dormiva in un fosso e gli offrì del vino, ma egli la pregò di andarsene via, ma lei tornò altre volte incurante dei divieti di Nanni.

    Maricchia era disperata e accusava al madre di volerle rubare il marito e andò anche dal brigadiere e Nanni lo supplicò di metterlo in prigione pur non rivedere la Lupa, ma ella non lo lasciava in pace. Una volta Nanni prese un calcio al petto da un asino e stava sul punto di morire, il prete si rifiutò di confessarlo se la Lupa fosse stata là, ella se ne andò ma, visto che Nanni sopravvisse ella continuò a tormentarlo e lui alla fine la minacciò di ucciderla. La Lupa gli si presentò ancora davanti e Nanni la uccise, senza che lei opponesse resistenza.



    ANALISI DEL TESTO

    Con La Lupa ci troviamo, anche qui, in una tragedia che sarebbe di per sé complicatissima, una tragedia dell’incesto, che ha tutta un’illustre storia artistica dai poeti greci all’Alfieri, e che il Verga si. è provato ad adombrare in creature elementari. Ormai sappiamo che questo è il suo ufficio di poeta nuovo: cogliere nei primitivi gli stessi drammi, che una letteratura dotta ha fino allora rappresentato in personaggi illustri. [...] Quello della Lupa è precisamente il dramma etico della sensualità. C’è una specie di terrore religioso, diffuso in tutto il racconto, per il peccare disperato e fatale di questa donna. Di questo terrore religioso e invasa la stessa protagonista, la quale subisce la sua colpa, il suo desiderio peccaminoso, come una legge inesorabile e imperscrutabile; essa accetta tutte le tragiche conseguenze del suo peccare, con una calma eroica, quasi con la serenità di chi affronta un martirio. Bastano i tratti dell’ultimo incontro con Nanni, che viene incontro per ammazzarla, con la scure levata in alto:

    La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di tmanipoL di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri.


    La passione del desiderio le dà una superiorità disumana: non e esagerato dire che essa è un’eroina, e una martire fermissima del suo stesso peccare. In cotesta risolutezza tragica è precisamente il suo riscatto. Anche per questo bozzetto, possiamo ricordare D’Annunzio, per la più brusca illuminazione del temperamento di due artisti così diversi. Nel D’Annunzio c’è soltanto la bramosia del maschio per la femmina, urna bramosia puramente fisica e belluina. Sono corpi che lottano, nei racconti dell’abruzzese, mentre qui, nel Verga, anche dove la sensualità domina, sono anime. Il desiderio carnale nel D’Annunzio ha sempre qualcosa di gioioso, e la tristezza animale c’è, nei suoi eroi, soltanto dopo soddisfatta la cupidigia dei sensi, quando si placa la turgidezza del sangue, e subentra la stanchezza impotente: tristezza egoistica sempre, come gioia egoistica. Nel Verga invece anche il desiderio sensuale splende di una luce tragica, il desiderio è una sofferenza, un’agonia. La Lupa ama, e prova, fissando negli occhi il suo uomo, « la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura . Tale passione risveglia precisamente l’impressione di un paesaggio affocato e arso. Quel peccare porta in sé stesso la sua pena, il suo castigo. E la Lupa pur di star sempre alle calcagna di Nanni, nel tempo della mietitura, affastella « manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco ». Però incombe su lei la penitenza cruda di quel paesaggio, di quei « campi immensi, dove scoppiettava sol tanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo ».
    Anche nei momenti più espansivi della passione, quando la dolcezza di un’immagine sembra un alito di freschezza e di refrigerio, — come quelle parole di una semplicità antica, da. poesia greca: Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te! » —, anche in quei momenti di abbandono idillico, c’è sempre la tristezza intenta di quel cielo immite, che è come l’inferno intimo dell’anima per la trista passione.

    Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavamo nell’aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: — Te voglio! Te che sei bello, ecc, ecc.

    Dove l’ardore della confessione è come perseguitato da immagini ossessive, gravose e cupe: gli uomini che sonnecchiano stanchi dopo la lunga giornata e i cani uggiolanti per la vasta campagna nera.
    E infine, come sentendo il peso, il tribolo, di quel suo peccato, la Lupa s’infligge da sé la sua penitenza; difatti va pei campi a lavorare cogli uomini, « proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto ». E in tutte quelle fatiche c’è l’affollarsi e l’ansito. stesso della passione, e il cruccio che la passione porta con sé. Cotesta caparbietà nel peccare e nel soffrire crea per l’appunto la grandezza solitaria della protagonista, che, in certi momenti, addirittura campeggia come la sinistra divinità del paesaggio, superiore alle stesse leggi fisiche a cui soccombono tutti gli altri uomini e gli stessi animali.

    ...allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana... la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte.

    Quanto alla tecnica artistica del racconto, c’è da osservare che lo scrittore si serve di poche pennellate per dipingere l’interna vita morale della protagonista: basta l’aggettivo « pallida », ma accompagnato ad altre note, in violento contrasto con quel pallore, e tutto il periodo prende un’andatura impetuosa e cupa:

    ...era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.


    Lo stesso contrasto è nel finale, dove quella magrezza avida e quella pallidezza risoluta paiono nascere dalle « mani piene di manipoli di papaveri rossi ». Queste note semplicissime esprimeranno al tempo stesso l’ardore e la macerazione del desiderio e quella sua tragica volontà di martirio. Però direi che l’artista, in tutto il resto del racconto, non ha seguito un procedimento pittorico, ma piuttosto una tecnica di scultore. Quella sua Lupa nella nostra fantasia vive come una rapida scultura drammatica, un dramma raggruppato in linee. Questa volta lo scrittore non ci dà, come in Rosso Malpelo, il ritratto della vita interiore della protagonista, non si indugia in analisi e commenti musicali di stati d’animo, ma richiama bruscamente desideri, sentimenti e sensazioni, in un gesto, in una linea, in un movimento.
    Da ciò, la rapidità del racconto, il più rapido della raccolta; ed è questa una rapidità intrinseca allo spirito del racconto stesso. Per quella pienezza etica che ha nel Verga anche la passione sensuale, non ci può essere in lui indugio per ricami e capricci sulla sensualità. La sensualità verghiana ha un’anima, una coscienza, che ci batte e ci frusta avanti a sé, perché si giunga a una risoluzione. Per le femmine e i maschi dannunziani, invece, che non vi-vono altro che sensualmente, gli indugi sensuali, e carezzevoli sono una vaga necessità. Poiché in loro c’è uno stacco delle passioni carnali da tutto il resto, tecnicamente tale dista eco si riflette nello stile, che è compassato, distante, preciso nei particolari, nobile e aulico nell’esprimere anche i moti più volgari, esteriormente tragico, quasi estraneo a quella carne viva, che si muove nel racconto.
    Lo stile del Verga pare invece plasmato dalla e con la stessa sostanza delle passioni rappresentate; è uno stile che viene dalle cose, rapido, intenso, coerente, dal principio alla fine, alla vita del racconto, così che pare intessuto delle stesse parole che avrebbero potuto dire di sd i personaggi, nel calore dei loro affetti. [...]
    Questa specie di terrore religioso della. passione incestuosa, che nella protagonista, difatti non solo vive in lei, ma è diffuso attorno alla sua persona: lei se ne avvolge e adorna come della. sua atmosfera, del suo manto e della sua corona. I commenti delle donnicciuole sono pervasi da questo affascinato sentimento del mistero peccaminoso della protagonista, e istintivamente la loro voce pettegola si accora e s’abbassa di tono, come davanti a una divinità paurosa: - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, ave va persa l’anima per lei -. Nel racconto, gli altri personaggi sono appena abbozzati; su tutta la scena campeggia sempre solitaria la Lupa. C’è Maricchia, la figliuola, la quale è messa lì per dar risalto al furore e alla risolutezza della madre: «... sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: — Se non lo pigli ti anmazzo! »-. Più nettamente individuato è Nann, sobrio e duro al lavoro, come chi mira ad assicurarsi uno stato. Egli vorrebbe tentare una qualche grossa ironia sulla cupidigia a sensuale della sua persecutrice, e ci riesce bene in principio. Sentiamo un’indolenza motteggiatrice, come di uomo che bada solo ai suoi interessi, in quel suo pigro domandare « O che avete, gnà Pina? »,. « Che volete, gnà Pina? », alla donna che l’incalza alle calcagna. Il suo tono di uomo interessato e che pesa sulla bilancia i varii partiti lo scorgiamo anche in quel suo asciutto, concludere, quando la Lupa gli ha fatto la proposta del matrimonio con la figliuola: « Se è così. se ne può parlare a Natale, disse Nanni ». . Sobrietà caratteristica dell’uomo posato e positivo. E l’artista si è servito di tale psicologia, accennata in iscorcio, per dare un’impressione ancora più potente e più prevaricante della malia peccaminosa della donna: anche l’uomo posato e positivo si lascia stregare dal demonio!

    C’è da avvertire che questo abbozzo troppo rapido degli altri personaggi non è un difetto, ma piuttosto un effetto d’arte; la soggezione psicologica di Nanni e di Maricchia alla madre è diventata un limite nella rappresentazione. I due personaggi secondari, perché appena accennati, finiscono col dare maggior risalto alla protagonista. Ciò che si può osservare in particolar modo nella chiusa: a rigore, li, noi dovremmo esser presi dalla figura di Nanni, che s’avanza pallido, stralunato, con la scure che luccicava al sole, ma invero, anche in questa scena, chi domina è la donna. Nanni, davanti a quella fermezza eroica, di vittima druidica che s’avanza, avida, verso il suo martirio, è soltanto un piccolo uomo balbettante: « — Ah! malanno all’anima vostra! balbettò Nanni ».

    Della novella, c’è solo un punto, in cui il lettore intoppa. Là dove c’è la traduzione, piuttosto stentata, di un proverbio siciliano (« In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona »), e che viene ripetuto, come un ritornello tragico, tra i singhiozzi, da Nanni, in un momento in cui cede ancora una volta all’imperio delittuoso della donna.
    Il Verga ha spesso abusato dei proverbi siciliani; talvolta essi nascono spontanei e suggestivi, ma altre volte sono zeppe letterarie. Giacché, come c’è una letteratura dotta, che si può ripetere, così c’è anche una letteratura popolare, vernacola, che può diventare accademia.



    Fonte: Giovani.it



     
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